La birra dei Liguri e dei Celti cisalpini tra archeologia, storia e linguistica
di Filippo Maria Gambari

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Pubblichiamo un riassunto dell'intervento del Soprintendente per i Beni Archeologici dell'Emilia-Romagna, Filippo Maria Gambari, in occasione della conferenza tenuta al Museo Civico Archeologico di Bologna nella giornata inaugurale delle Archeologite Bolognesi 2012

Bicchiere globulare con resti liofilizzati di una bevanda fermentata (forse birra rossa) rinvenuto nel 1995 in una necropoli golasecchiana scavata a Pombia (NO)Il ruolo della birra sul piano dell’alimentazione, dell’economia di scambio e del rituale del banchetto nella protostoria europea è stato spesso sottovalutato, soprattutto a causa della scarsa disponibilità di riscontri archeologici. La scoperta recente nella necropoli della cultura di Golasecca in proprietà Baù di Pombia (NO) di un bicchiere d’impasto databile intorno al 560 a.C., collocato ritualmente sopra le ceneri nell’urna, con resti di una probabile birra rossa di gradazione medio-alta ha richiamato ormai definitivamente l’attenzione sull’importanza della birra nella tra Piemonte e Liguria almeno fino alla progressiva diffusione dell’uva coltivata tra la media età del Ferro (VI-V sec. a. C.) e l’età romana. Le particolari condizioni di conservazione della tomba 11/95 in proprietà Baù hanno consentito per la prima volta, attraverso le analisi condotte sul residuo anidro conservato nel bicchiere collocato nell’urna cineraria, di individuare con buona probabilità la natura di una bevanda presente come offerta funeraria all’interno di una tomba golasecchiana. L’identificazione molto probabile della sostanza come birra con luppolo comporta notevoli conseguenze sul piano dell’interpretazione della realtà sociale, economica e rituale della cultura di Golasecca, ma in questa sede importa soprattutto confrontarsi con le tradizioni ricavabili dalle fonti antiche e dall’archeologia per l’utilizzo di bevande fermentate da cereali in Piemonte e nell’Europa transalpina, trascurando per ragioni di spazio le altre bevande alcoliche sicuramente presenti fin dalla preistoria nella nostra regione, come l’idromele o i vini di frutta e uva selvatica.
Il grande sviluppo della linguistica celtica può oggi aiutarci a comprendere a grandi linee le diverse denominazioni delle fonti latine e greche e a formulare un quadro schematico di riferimento, facendo naturalmente le dovute riserve per l’utilizzo probabilmente non sempre così preciso e differenziato della terminologia, soprattutto da parte di fonti antiche non specifiche nell’intento classificatorio e naturalistico. Cercando di adeguarsi all’impostazione metodologica utilizzata da E. Sereni per indagare sulle più antica viticoltura partendo dall’analisi storico-linguistica della terminologia specifica, filtrata anche attraverso le fonti antiche, ci addentreremo dunque nel groviglio terminologico applicato dagli antichi Greci e Romani (che per lo più non l’apprezzavano) alla birra, confrontandolo con i pochi dati archeologici utilizzabili per elaborare ipotesi di lavoro che potranno essere confermate solo con un ampliamento della base documentaria disponibile e delle analisi di laboratorio: scopriremo un lessico ricco ed articolato, adatto ad una tipizzazione non lontana da quella delle attuali birre.

Tra le prime birre diffuse in Italia settentrionale è da collocare la alica o arinca descritta minuziosamente in particolare da Plinio nel XVIII libro della Naturalis Historia. Il nome si riferisce alla farina di un tipo di “farro” (secondo Plinio) o meglio spelta di facile mondatura ed alla bevanda che se ne ricava. Nella penisola italiana si sbiancava per motivi estetici la farina con latte o con un gesso bicarbonatico dei Campi Flegrei e si aggiungeva acqua e, in percentuali molto variabili, miele. Rinomata nel Veronese, nel Pisano ed in Campania ancora in età romana, deve il suo nome ancora alla radice del lat. alo “nutro” da i.e. *al- e si ricollega all’antico termine i.e. *alu, *alut “bevanda amara, birra”. La variante arinca rispetto alla denominazione latina è da intendersi come effetto del rotacismo celto-ligure. Proprio per l’ampia diffusione delle attestazioni derivate da tale radice nelle lingue indoeuropee è probabile che questo termine rappresenti la prima base identificabile del più antico lessico europeo della birra. La prova della diffusione del termine viene dal fatto che ad esso si ricollegano il nome antico celto-ligure dell’arinca (“spelta”), cereale “proprio delle Gallie ed abbondante in Italia” (PLIN XVIII 81), e l’attuale termine inglese ale ”birra” oltre ad alcune sopravvivenze dialettali, come nel Novarese (Oleggio), dove al[i]calan indica un “vinello molto leggero”. La stessa ipotesi linguistica che attribuisce al sorbo il nome celtico di alisia sembra creare un legame di radice con la birra alica, forse giustificabile dall’uso di farina di sorbe come supplemento zuccherino nella fermentazione, secondo la descrizione di Virgilio (Georg. 379-380). La descrizione delle fonti non lascia dubbi sul fatto che si trattasse di norma di una bevanda, pur se fermentata a caldo, poco alcolica, più nutriente, depurante e tonificante che inebriante: la trattazione pliniana indica che chiaramente la bevanda per antonomasia era ricavata dalla sola spelta, ma non si può escludere che bevande analoghe fossero ricavate con miscele diverse di cereali, come sembra desumibile dalla sopravvivenza del termine nelle denominazioni della birra. Una bevanda simile è d’altra parte alla origine del termine greco zythos, derivato dal nome nella stessa lingua della zea (spelta) e contemporaneamente collegato alla radice verbale che indica il “vivere”: è facilmente spiegabile come questo ultimo termine si amplierà a comprendere in genere molte birre chiare a bassa gradazione, ricavate dallo sbriciolamento di pani indipendentemente dal cereale usato, e sarà specifico, come abbiamo visto, ancora nel mondo romano per distinguere la birra egiziana ed orientale rispetto alla cerevisia celtica, “vino d’orzo”.
Almeno per l’età del Ferro europea non sembra invece dubitabile, sulla base delle fonti, l’esistenza di una birra chiara ben fermentata, inebriante e ben conservabile per la sua gradazione. Per quest’ultima possiamo confrontare i termini celtici *bracia (ricostruito, sulla base di bracis, orzo distico o scandella in Plin XVIII 62, della glossa “braces sunt unde fit cervesia”, di un Marte della birra attestato per esempio nell’iscrizione Deo Marti Braciacae a Bakewell - GB), bryton (nome della birra presso Liguri, Frigi e Traci secondo Ateneo, X) ed embrekton (nome di bevanda usata dai Galati dell’Asia Minore secondo Esichio). Il nome del cereale continua nel tardo latino brais, brais[i]um. Dalla scandella, l’orzo distico descritto da Columella, evidentemente si ricavava in Cisalpina e nella Gallia transalpina, oltre che nell’Europa orientale, una birra, abbastanza forte e gassosa. Il termine diventerà poi caratteristico per indicare il malto d’orzo (cfr. ant. irl. braich ed altri analoghi). La radice i.e. *bhrac- “fermentare, marcire”, da cui i lat. marcēre “marcire” e fraces “feccia dell’olio”, spiega bene il termine, cui si collegano gli attuali termini tecnici nell’ambito della produzione della birra in francese, brai e brasser/brasserie (da tardo lat. braciare). La variabilità delle denominazioni su un arco territoriale così ampio non stupisce anche in considerazione della probabile imprecisione delle fonti classiche per la scarsa attenzione ai tecnicismi della birra, ma appare interessante che, a differenza dei termini connessi alla base alica, questo nome della birra non sembra collegabile direttamente ad una comune radice indoeuropea con significato specifico ma se mai potrebbe essere formatosi sul piano linguistico e semantico nella famiglia delle lingue celtiche, ligure compreso.
Simile al bryton ma diversa per il cereale prevalente utilizzato doveva essere anche la celia / cerea, la birra classica dei Celtiberi secondo Plin XXII, Flor II, Amm. Marc XXVI, Oros V. E’ evidentemente una birra chiara a base di frumento (ex tritico nelle fonti): il frumento, messo a macerare e seccato dopo la fermentazione, era ridotto in farina e poi si aggiungeva acqua. Appare falsa l’etimologia citata dagli autori latini: celia a calefaciendo. Questa birra bionda di frumento prende nome da una radice indoeuropea che origina i lat. Ceres e cerealia; ma doveva essere diffusa anche in Cisalpina, come si desume dal nome del lago Ceresius (C[e]lisius in Tab. Peut., con la stessa oscillazione rotacistica citata da Plinio e peraltro ricorrente anche nelle varianti alica/arinca), oggi Lago di Lugano (“biondo, chiaro” o “ribollente”?), e forse da toponimi del tipo Ceres (TO) e Ceresole (TO). Un rapporto linguistico potrebbe legare la celia e la parola gallica celicnon, secondo l’interpretazione più diffusa “sala da banchetto” ma più verosimilmente “coppa per bere”, con una derivazione aggettivale simile alla formazione di numerosi patronimici. Le considerazioni fatte inducono a credere che probabilmente anche questo termine si origina all’interno della famiglia linguistica del celtico continentale. Sul piano tecnico, bisogna supporre per la celia una fermentazione abbastanza completa, ma senza consistente riscaldamento o tostatura dei grani, con risultati forse simili alla attuale famiglia delle birre chiare europee (Weizen o Weissbier).
Ben nota dalle attestazioni delle fonti (Posidonio in Ateneo, IV 151, Dioscoride, II 110, Marcello Empirico, XVI 33) e meglio individuabile dalle precedenti è invece la curmi/ korma: si tratta di una birra chiara a base esclusivamente di orzo (secondo Dioscoride), probabilmente di norma addizionata con sostanze zuccherine come miele (Posidonio) e rifermentata per ottenere una bevanda notevolmente frizzante: tipica della Gallia, soprattutto Transalpina, collega il suo nome all’i.e. *kerm- “bruciare, ribollire” (lat. cremor “mucillagine d’orzo”; cremare "bruciare”; ital. cremore) e richiama i toponimi Cormons (GO), Cormignano (BS), Cormano (MI). L’aggiunta di miele era originariamente collegata alla necessità di aumentare la gradazione saccarometrica anche a fini conservativi con una integrazione di zuccheri, secondo una tecnica tipica di birre primitive, ma, per il carattere “galante” che sembra assumere la curmi in età gallo-romana, l’aggiunta di miele era diventata funzionale per la rifermentazione a freddo per aggiungere perlage alla bevanda. Sul piano linguistico è stato addirittura ipotizzato un rapporto apofonico di curmi con ceria e ceruisia (*kerm con lenizione di m?).
Un altro termine in uso per la birra, soprattutto in attestazioni tarde, era camum (Ulp. Dig. XXXIII 6, 9; Edict. Dioclet. p. 28). Si indicava con questo nome una birra di buona gradazione probabilmente non a base di orzo ma di altri cereali (in particolare il miglio), verosimilmente con un termine tecnicamente distinguibile anche da quello di bryton/embrecton. Nell’editto di Diocleziano indica la seconda famiglia di birra europea a buona gradazione in alternativa alla celtica ceruisia, che era presumibilmente rossa; anche per Ulpiano essa si presenta in alternativa alla cervisia (“simili modo nec camum nec cerevisia continebitur…”). La denominazione del camum era probabilmente originaria dei Celti dell’Europa orientale e poi diffusa ad ovest, con parentele in ambito indoeuropeo nel senso di “scaldare, bruciare, battere, forgiare” (cfr. gr. kαω, “brucio”, i.e. *kaumi), ma non manca di collegamenti in Cisalpina come nel gentilizio romano cisalpino Camonius, attestato epigraficamente nel Bolognese (cfr. anche il toponimo Camugnano – BO ed il cognome novarese Camona), nei toponimi di Camogno fraz. di Oggebbio (VB), Camodeia (Camoetium) oggi Castellazzo (NO), Camo (Camulum) in Valle Belbo (CN), Camagna M.to (Camanea) (AL) o addirittura forse nel celtico camulos “servo” ed epiteto frequente di Marte. La troviamo in realtà attestata in Pannonia nel 448 d.C. alla corte di Attila nella descrizione di Prisco in Giordane (IV 83), mentre due secoli prima Giulio Africano (cest. 25) la riferisce bevuta dai Peoni di Macedonia. Il termine camum è comunque importante perché è la base da cui si formano i termini tardolatini camba, camma, cambarius, che figurano sia per i conventi che per gli ambiti civili nella terminologia medievale soprattutto in Francia per indicare i luoghi e gli artigiani della produzione della birra.
Ma il nome più importante per la designazione della birra d’orzo celtica è naturalmente ceruisia/cervogia (PLIN XXII, COLUM X): si tratta verosimilmente di una birra rossa o brunastra a base di orzo, tostato o soprattutto fumigato, non mielata, variamente aromatizzata (Columella), tipica delle Gallie. Il colore rosso/bruno è esplicito nel nome stesso, che deriva molto probabilmente dall’i.e. *kerewos “cervo, rosso”, per la caratteristica del colore rosso-brunastro del cervo europeo (ingl. red deer), in un uso per la definizione del colore simile all’uso moderno in italiano di “camoscio” e a quello ricostruito come ipotesi per camum. La denominazione sopravvive ancora oggi nello spagn. cerveza e indica ancora nelle fonti romane la birra per eccellenza, a gradazione elevata, definita anche nelle fonti antiche soprattutto greche “vino d’orzo”. Questo nome, reso famoso dal già richiamato epigramma dell’imperatore Giuliano l’Apostata, non deve favorire la confusione con preparazioni tipiche del mondo greco, come il kykeion, bevanda sacra dei misteri eleusini, composta da vino forte, orzo, miele e formaggio grattugiato, aromi vari, tipica degli eroi omerici secondo Ateneo (I, 30b) o altre miscele pregiate di vino con orzo, erbe aromatizzanti ed inebrianti, legate soprattutto ad usi rituali nei culti di Demetra.