MANGIAR PESCE
TABù, MITO E RITO

Il consumo del pesce in Grecia può assumere un carattere moralmente ambiguo, legato alla duplice natura del mare come fonte di morte e di vita: così il tonno pescato a Samo è un enorme “mostro marino” (kêtos) e una vera e propria leccornia degna degli dei (Archestrato).
Nutrirsi esclusivamente di pesce è poi, per l’uomo greco, una caratteristica degli Ittiofagi delle coste dell’Africa nord-orientale e della penisola arabica, popoli primitivi che risiedono ai margini del mondo conosciuto e non posseggono imbarcazioni né i consueti strumenti per la pesca ma che sfruttano il gioco delle maree, rudimentali reti di giunchi intrecciati o barriere di scogli per procurarsi di che sopravvivere.

I Greci sembrano incuriositi anche dagli Egizi che ritengono sacra l’anguilla e altre varietà di pesci -che i loro sacerdoti si astengono dal consumarne- e dai rituali connessi al culto micrasiatico e fenicio della dea Atargati, praticato presso il lago d’Ascalona. Xanto di Lidia racconta che Atargati e suo figlio Itti (il “pesce” per eccellenza) vennero gettati nel lago e divorati dai pesci: proprio in virtù delle sue sofferenze, ella divenne la Grande Dea di Ascalona, a cui venivano offerti pesci d’oro e d’argento e quelli sacri del lago, che venivano poi consumati dai sacerdoti durante un banchetto. Ctesia riconnette invece la Grande Dea al mito di Derceto, una divinità minore che si sarebbe gettata nel lago dopo aver concepito un figlio illegittimo e sarebbe stata salvata dai pesci, divenuti perciò sacri. Derceto è altresì associata alla dea Syria venerata nel santuario di Bambice-Ierapoli, chiamata da Erodoto Afrodite Celeste e accomunata a divinità femminili curotrofiche e protettrici dei naviganti (la greca Leucothea, la fenicio-punica Astarte), il cui culto è attestato in tutto il Mediterraneo, da Smirne (da cui proviene un’iscrizione in cui vengono nominati dei “pesci sacri”) al santuario etrusco di Pyrgi (ove, in un pozzo sacrificale, si sono rinvenuti resti di pesci, crostacei e molluschi oltre ai più consueti animali domestici e selvatici).

Non mancano, tuttavia, nell’universo cultuale propriamente greco, pesci ritenuti sacri e perciò immangiabili. L’anthías, pesce (non meglio identificato) chiamato sacro perché in sua presenza non vi sarebbero pericoli per l’uomo; un pesce leûkos, sacrificato alla dea Berenice, connessa ad Afrodite; l’aphrîtis, che nasce dalla schiuma del mare ed è sacro ad Afrodite; la téttix enálios, “cicala di mare”, che viene mangiata da pochi e a Serifo viene sepolta se morta durante la pesca; la trígle, “triglia di scoglio”, sacra ad Ecate e ad Artemide, perché si riteneva cacciasse le mortali “lepri di mare”, e per questo si astenevano dal cibarsene gli iniziati di Eleusi e la sacerdotessa di Era ad Argo; il pompílos, il “pesce pilota” che scorta le navi, nato dal sangue di Urano come Afrodite, sacro a Poseidone e ai Cabìri, divinità preelleniche di Samotracia, collegate ad attività marittime. Nei confronti di quest’ultima specie, Ateneo narra la vicenda del pescatore Epopeo che, non avendo altro, osò cibarsi di pesci pilota e venne inghiottito da un mostro marino: il racconto è leggibile come la punizione per la violazione di un tabù ma anche come traccia di un primigenio sacrificio umano per propiziare la pesca.
In qualche occasione i Greci praticavano veri e propri sacrifici di alcune specie: gli abitanti di Ale Essonide, un demo attico, immolavano a Poseidone il primo tonno pescato in un rito chiamato thynnaîon mentre i Beoti sacrificavano agli dei le anguille copaidi più grandi, mettendo sulle loro teste una corona, cospargendole di grani d’orzo e intonando preghiere.
Plutarco infine, cercando di rintracciare le motivazioni per cui i Pitagorici si astengono dal mangiare il pesce, riporta la teoria del filosofo Anassimandro, che più di ogni altra rivela la valenza altamente simbolica che un tale atto può assumere: egli afferma che gli uomini in antico si ingenerarono e si nutrirono all’interno dei pesci e che solo quando divennero tali da poter badare a se stessi uscirono e toccarono la terra, « [...] così Anassimandro, rivelandolo come padre e madre comune degli uomini, disgiunse il pesce da ciò che è commestibile» (Moralia 730).

a cura di Flavia Giberti