DOVE LO MANGIO, COME LO CUCINO
TRE DRACME PER UN’ANGUILLA

L’agorà di Atene -la piazza del mercato- viene spesso scelta come teatro della commedia attica. Qui si poteva trovare tutto ciò che veniva prodotto anche al di fuori dei confini del Mediterraneo. E qui, più che di ogni altro tipo di cibo, i cuochi e gli intenditori parlano del pesce, venduto in settori del mercato chiamati eis tous ikhthyas, eis toupsa o, come luoghi specifici, anche opsopolia.
Se numerosi sono i riferimenti al consumo del pesce nelle antiche fonti greche è invece difficile trovare precisi riferimenti ai prezzi attribuiti a questo genere alimentare: verosimilmente, specie come il pesce persico, il glaukos, l’anguilla, il gongro, erano considerate delle grandi prelibatezze. Acquistare e mangiare questi pesci era considerata un’attività elitaria nell’Atene di V secolo, attribuibile ad un particolare stile di vita. In un passo dell’Emporos di Difilo (32 K-A) un personaggio esclama che ha pagato per un pesce il suo peso in argento, quanto pagò Priamo riscattando Ettore; nei Neaniskoi di Antifane (Antiphanes 164 K-A) un personaggio esclama che deve distogliere lo sguardo quando acquista del pesce perché se vede quanto è piccolo il pesce che costa così tanto, potrebbe diventare un pezzo di ghiaccio; negli Acarnesi di Aristofane (v. 962) il prezzo di una singola anguilla è di tre dracme, in una commedia di Anfide (Amphis K-A) il prezzo di un polpo è di quattro oboli, otto quello di un barracuda.
Dunque ad Atene il prezzo del pesce doveva essere in generale abbastanza alto e oggetto di ansietà, come mostrano i diversi passaggi. Ma al di là delle preziose informazioni è difficile attribuire valore storico ai passi della commedia: siamo infatti nel mondo dell’esagerazione comica dove il pesce, al pari di altre realtà, è usato come simbolo di distinzione sociale.

Non abbiamo testimonianze storiche riguardanti il prezzo del pesce nel V-IV secolo, ma un importante dato è offerto dalla stele di Acraephia (Beozia, fine III -prima metà II secolo a.C.) che conserva una lista di pesci con, in alcuni casi, il loro prezzo di mercato. Certo ci sono diversi problemi, primo fra tutti il sistema di misura di riferimento che ad Acraephia -a differenza del sistema ateniese ricordato nelle commedie che prevede la vendita del pesce per unità, singolo pesce o pezzi di pesce – si serve della mina emporiki (circa 600/800 gr.); è inoltre difficile il paragone tra la metropoli attica di V-IV secolo e la piccola cittadina di provincia in età ellenistica. Tuttavia la stele ritrovata nel 1934 presenta un’interessante lista che verosimilmente doveva fissare il prezzo di  pesci di mare e pesci di acqua dolce, secondo una variazione legata al peso e alla qualità del pesce: “un obolo per l’altra varietà [di tonno], un obolo e due monete di bronzo (chalchoi) per [? una mina di] tinnida (thunnis); 1 obolo e cinque monete di bronzo per [? una mina di] labro (kichle)…; cinque monete di bronzo per una mina di rana pescatrice (batrachos), cinque monete di bronzo per una semimina…”.

Se non è ancora possibile una risposta sul prezzo esatto di questo prodotto alimentare, almeno dalle fonti risulta che, per quanto riguarda il pesce fresco, si trattava comunque di merce nella maggior parte dei casi pregiata e costosa, appannaggio di pochi, verosimilmente con un piccolo ruolo, sussidiario, nella dieta dell’antico cittadino greco. Diversamente il pesce preventivamente conservato sotto sale o affumicato – famoso era il tonno salato Bizantino, chiamato horaion e kybion – era meno costoso e si poteva ritrovare anche sulle mense dei meno abbienti: il pesce sotto sale era l’alimento degli schiavi e dei contadini (Demostene, Lacritos 933; Aristofane, Pace 564, Cavalieri 1255), poteva essere conservato per lungo tempo e il suo ruolo nell’economia di IV-V secolo doveva essere molto importante.

a cura di Valentina Coppola